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al testo di Ivan Pozzoni
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Inizio i miei versi con la frase: l’attesa è spasmodica, ché se l’attesa è modica non conduce a una vita spasmica, e attendendo mi faccio attendente, cavalier servente dell’arte ufficiale, spizzicando bastoncini di surimi e un bicchiere di Bellini, la rima è servita, non occorre nemmeno il rimario Virgilio Parole, mi butto direttamente dalla finestra del verso senza dover fare capriole.
L’attesa m’attende, e, stando sull’attenti, con massima attenzione, ho scoperto che Mondadori ed Einaudi, i maggiori critici, il lettore mi darebbero ruolo di artista laureato se scrivessi versi di diverso spessore, tipo De Angelis, facendo un mischione insensato di emozione, sensazione, erezione in modo da consegnare sempre in tempo nuovi volumetti e incassare assegni senza l’imbarazzo che il significante dello scrivere a mischioni sia solamente uno scrivere «a cazzo».
Proviamo, con la nuova metodologia: tre righe senza senso, e una riga mia, ingannare il lettore non è un reato che distrugga la coscienza se il 99% dei lettori, oramai, non sia malato di immunodeficienza, cerco di aprire il vocabolario «a cazzo» e, dotatomi di un’alta dose d’androfobia, decostruisco i miei testi incipitando da un termine estratto a sorte, l’unica fregatura è che ho a casa solo il dizionario di Greco antico e vorrà dire che mi laureerò (come cazzo si scrive?) grande artista tra lingue morte.
Apro, e come incipit del testo esce il termine krateo: ho capito, va’, non ho il talento di scrivere da sadduceo.
[Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015] |
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